Tu sei qui

Non possiamo bere dai rivoli della sinistra: dobbiamo tornare alla fonte

di ELISABETTA PICCOLOTTI
11/04/2018 - 14:35

In incipit un paradosso: questa pessima situazione custodisce molte potenzialità. Asciugate le lacrime prodotte dal collasso politico della sinistra si vede immediatamente che per la prima volta dall'inizio della crisi economica del 2007 il campo è completamente sgombro. In Italia non c'è oggi nel mondo progressista nessun progetto politico credibile. Non ci sono partiti solidi, inaccessibili architetture di potere, leader inscalfibili a governare la partita. E' finita l'agonia degli anni '90 del centro-sinistra di governo, e anche quella delle identità novecentesche. E' finita la contrapposizione tra riformismo e radicalismo, ed è tramontata l'idea che basti farsi un partito di sinistra o una Leopolda per scalare il sistema politico.

Il voto del 4 marzo non ha aperto una nuova transizione, ha chiuso invece quella che cominciò con l'89. Un trentennio che è servito a demolire la democrazia dei corpi organizzati, a sancire il trionfo del mercato sull'autonomia critica della persona umana, a mutare l'antropologia sociale cancellando il valore politico della dimensione collettiva dell'esistenza.

La sinistra quasi non c'è più. Con una buona dose di ottimismo, che non tutti - compresa spesso chi scrive - abbiamo, si vede che questo è il momento in cui 'ricominciare' non ha alcun senso, e 'cominciare' può averne potenzialmente tanti.

Potrei insistere sugli errori della sinistra che sono stati lungamente analizzati in questi anni e nell'ultimo mese. Non sono gli errori di Leu, di cui pure dobbiamo avere consapevolezza per trarne alcune conseguenze, ma sono gli errori e le ragioni strutturali che hanno fatto sì che nel Pd sia prevalsa la linea neoliberale e a sinistra del Pd esperienze molto diverse nell'ultimo decennio abbiano conseguito in Italia sempre lo stesso identico risultato, galleggiando tra il 3 e il 4% e poco sopra il milione di voti. 

A valle di esse resta un solo grande campo neoliberale, in cui poche forze politiche, divise sull'asse sistema-antisistema, interpretano con parole d'ordine diverse, e non senza contraddizioni, le stesse inquietudini sociali. Rottamiamoli tutti, cacciamoli tutti, ramazziamoli tutti è il già visto di una parabola che oggi apre una fase nuova, in cui la sopravvivenza dei suoi protagonisti si gioca sulla capacità di trasformare un gigantesco movimento negativo in una politica affermativa.
Una sfida dagli esiti minati, i cui contorni si intravedono già nello scomposto dibattito sulla nascita del futuro del governo. Socialmente il terreno è franoso, carsico, dilaniato dagli effetti della crisi e dalle scelte compiute per uscirne: lo sa bene Matteo Renzi il cui tentativo di trasformare la rottamazione in un successo di governo si è infranto su quella riforma costituzionale che era il cuore della trasformazione in senso neoliberale dello Stato in Italia.

Vedremo tra qualche tempo cosa ne sarà invece delle ramazze di Salvini e dello tsunami dei cinque stelle, entrambi avviluppati nelle contraddizioni di un elettorato che invoca un cambiamento che contiene caratteri 'conservativi', spinge cioè per ribaltare il tavolo politico senza minacciare i fondamentali della struttura economico-sociale che lo modella e controlla.

Aprire la scatoletta di tonno con una ruspa potrebbe essere un'operazione potenzialmente catastrofica in Italia, con effetti sistemici più gravi dell'auspicabile indebolimento di Lega e 5 Stelle. Sbaglia chi crede che l'opposizione a sinistra, nello stato in cui siamo, possa avere una funzione costituente e generativa. Occorre quindi che Leu e Pd usino le proprie forze parlamentari per impedire che l'attuale crisi politica sbocchi definitivamente a destra, proprio là, dove il voto si è già spostato il senso comune di milioni di persone, superando i problemi di grammatica politica, per un governo a tempo che coinvolga il Movimento Cinque Stelle.
Non sarebbe un governo di cambiamento, certo. Non basta rivedere vitalizi e stipendi dei parlamentari, allargare la platea del reddito d'inclusione, riformare parzialmente il sistema previdenziale e limitare i danni ambientali per aprire nuove prospettive. Ma avere un governo non intento ad appiccare incendi potrebbe servire a molti per guadagnare il tempo per accendere fuochi e sedervisi intorno. Per stare insieme al confine del futuro che vorremo, cercando il suo senso e le parole per raccontarlo.

Perché è proprio sul senso del nostro stare al mondo che tutto è andato in frantumi: la nostra è l'epoca delle passioni tristi, dell'odio in rete, della depressione 'male del secolo', del bullismo e delle nuove forme di alienazione legate alla tecnologia. E dal punto di vista sociale il tempo che chiamammo della 'precarietà esistenziale', oggi spesso è quello della 'povertà esistenziale'.

Non è questione semplicemente di alternativa politica, ma di alternativa di vita.
Le nostre giornate sono devastate dagli effetti dello sfruttamento e dell'autosfruttamento nel lavoro, dal tempo nel traffico, dalla burocrazia da sbrigare, dalle scocciature che ci raggiungono via chat. Siamo assediati dal cemento, circondati da giganteschi centri-commerciali in cui qualche milione di famiglie passa la domenica tirando l'elastico tra ciò che vorrebbe acquistare (sempre di più) e ciò che può permettersi di comperare (sempre di meno). Bombardati da messaggi sempre più personalizzati, che ci istigano al consumo e alla competizione. Ossessionati dal nostro aspetto fisico, sempre più vecchi, paradossalmente sempre più ignoranti e ottusi, sempre più soli, sempre più ipocondriaci.

Vittime nevrotiche della semplificazione e delle nostre angosce: via gli immigrati che aggiungono povertà alla povertà, via i parlamentari che conoscono solo palazzi e ricchezze, via i garantiti che tengono in ostaggio lo Stato con il loro welfare e il posto fisso.

I grandi capitali hanno divelto le leve principali delle classiche forme di conflitto della sinistra: si sono messi al riparo dal conflitto dei lavoratori attraverso la precarizzazione, la finanziarizzazione e l'automazione, e hanno ridotto il potere dello Stato, complice il trasferimento dei poteri in istituzioni sovranazionali ancora a-democratiche, la riduzione degli spazi di partecipazione e la trasformazione della pubblica amministrazione in 'erogatore di servizi', spesso in concorrenza con il privato. Di conseguenza ci siamo combattuti in casa: la guerra tra poveri innescata dalle migrazioni, il conflitto tra rappresentati e rappresentati culminato nella battaglia anti-casta, la contraddizione tra lavoro e ambiente, l'ostilità tra garantiti e precari incardinata sul grande tema del debito pubblico, il divario tra i nord e i sud, esploso nella sfida della competitività nel mercato globale.

Sulla spiaggia di una paradiso fiscale in molti hanno comperato i pop-corn per godersi lo spettacolo, mentre attraverso i big-data studiavano i processi sociali come si studia l'etologia delle formiche.

Non c'è via d'uscita da questa situazione se si insiste a volerla affrontare con gli strumenti di una sinistra classica, socialdemocratica, riformista o eretica che sia: invocare la nascita di un partito del lavoro o il ritorno alla sovranità statale classica mi paiono più scelte figlie della frustrazione che progetti politici figli della contemporaneità. E' velleitario anche pensare che il Partito Democratico possa ribaltare la propria politica liberista, il proprio populismo pro-establishment, per tornare ad essere il perno di un nuovo centro-sinistra, collocato saldamente sul binario di quel socialismo europeo che abbiamo visto fallire nell'ultimo decennio. Che senso avrebbe? Non accadrà probabilmente e in ogni caso non funzionerebbe.
E ancora: che senso avrebbe oggi in Italia pensare che sia sufficiente ricostruire un soggetto politico di sinistra, definire un quarto o un terzo polo, senza che prima venga generato un nuovo immaginario diffuso?

Prendiamo Liberi e Uguali o Sinistra Italiana o Mdp o qualsiasi altro soggetto politico della sinistra che resta. Le strade sono due: affaccendarsi per fare le pulci alle sconfitte degli uni e degli altri, cercando risposte facili, usando il poco tempo che c'è prima delle prossime elezioni per dividersi e riorganizzarsi, come sempre è stato almeno dal 2008 in poi, oppure liberarsi dai propri tic e trasformarsi in piattaforme di connessione politica per la critica al modello di sviluppo egemonico. Accendere i fuochi appunto, connettendoli con una struttura leggerissima e moderna, una rete davvero aperta di gruppi territoriali, democratica e generosa, che abbia l'unico obiettivo di costruire un agire politico e un immaginario progressista e di cambiamento.

Non è un progetto politico minimal, è al contrario molto difficile da realizzare.  Perché non l'abbiamo fatto prima delle elezioni? Ci sono motivazioni serie che debbono diventare patrimonio collettivo, perché hanno anche vanificato lo sforzo collettivo d'analisi e di lavoro con cui tanti di noi diedero vita a Sinistra Italiana. In primis perché abbiamo dovuto buttare tempo vitale, quasi cinque anni, in lotte intestine, congressi e scissioni tutte imperniate sull'antistorica domanda 'ha ancora un senso il centro-sinistra?'. E poi perché il nostro campo non era sgombero dalle macerie del passato, le quali invece di ridursi sono progressivamente aumentate all'aumentare della forza demolitoria di Renzi e Di Maio. E infine perché le imminenti elezioni politiche hanno determinato -come inevitabilmente accade sempre a livello nazionale - necessari processi di verticalizzazione interni ed esterni ai partiti. 

Si può, è ovvio, decidere anche ora per la coazione a ripetere: ci sono le europee alle porte, le elezioni politiche che potrebbero ripetersi a breve, c'è il dibattito interno a tutti i partiti che ricomincia esattamente da dove lo abbiamo lasciato con in più il peso di un 3% deludente. La forza centrifuga è già attiva, alimentata dall'insopportabile peso della confusione, dalla tentazione di rintracciare nel voto conferme alle tesi più diverse, dal sacro fuoco delle legittime ambizioni personali che in politica non si spegne mai. Ci sono tutte le condizioni perché tutto accada di nuovo.
Lo dico con tranquillità e senza sensi di colpa: se questa è la strada che prenderanno le cose a sinistra personalmente non parteciperò in forma attiva. Ci sono molte esperienze e ricerche aperte che avrebbero bisogno degli strumenti che abbiamo faticosamente custodito (la nostra passione, un gruppo parlamentare, dei finanziamenti, della visibilità mediatica da sfruttare), battaglie molto concrete capaci di generare la forza buona dell'utopia quotidiana a cui darò il mio contributo in forma diversa. Diversamente se abbiamo il coraggio della pazienza e dei tempi lunghi, la maturità della comunità e la voglia di rompere tabù, ci sarò, anche se con modalità diverse da quelle che mi hanno vista protagonista fin qui. 

Avremmo alcuni spunti importanti su cui lavorare: immaginare l'uso dei robot per liberare l'umanità dal lavoro e dallo sfruttamento, il reddito di cittadinanza come il più realistico veicolo per una redistribuzione efficace della ricchezza, l'abolizione del contante come strada efficace per la lotta all'evasione e la riduzione della pressione fiscale, la riduzione consapevole dei consumi e la conversione ecologica di tutta la filiera produttiva come via per il benessere, e ancora la completa gratuità dell'istruzione e della sanità come terreno di ridefinizione di un orizzonte universalistico dei diritti. Occorre organizzare la rete di chi crede che l'eccessiva concentrazione di ricchezza è immorale e rappresenta un ostacolo ad uno sviluppo equilibrato del pianeta: invocare nuove regole per i capitali e le multinazionali, e chiedere la violazione dei vincoli di bilancio europei che impediscono politiche socialmente espansive, per aprire un conflitto costituente che cambi l'Europa e ottenga la revisione dei trattati che hanno modellato la globalizzazione finanziaria. Dobbiamo anche aver fame dei percorsi di liberazione reali: da quelli delle donne del #metoo a quelli dei tanti che si battono per diritti civili pieni. E poi riprendere un discorso sulla pace, nel tempo buio del terrorismo e delle guerre geopolitiche.

E spingere ovunque si può per rideterminare il terreno dell'impegno politico nelle città, incardinandolo sul nuovo municipalismo e su liste civiche e plurali, autonome e capaci di osare alleanze spurie, incentrate sui programmi.

Non è semplice: incontreremo ostacoli tra le nostre fila, e poi verrà il tempo delle scelte: sul soggetto politico, sulla leadership e sul campo, quello dei programmi di governo. Non è un tempo molto lontano, ma è un errore pensare che esso sia ora. Sarebbe come scattare una foto della miseria che c'è. Ora dobbiamo produrre una grande fase di mobilitazione con tappe e metodologie da individuare insieme, e uno schema di obiettivi e valori minimi aperti: non dobbiamo dire chi siamo, dobbiamo dismettere l'armamentario retorico della sinistra da salvare, dobbiamo dire cosa vogliamo fare. E farlo.
Perché l'esperienza di questi anni dimostra che non possiamo bere ai rivoli della nostra identità storica, ma che occorre tornare alla fonte. Produrre una cesura, incarnata in esperienze plurali e con una partecipazione orientata ad un agire non minoritario, non al semplice atto – pur fondamentale - del votare in delle primarie o in un congresso o su una piattaforma digitale. (urge un'analisi meno retorica di quelle che ho visto circolare sulle pratiche democratiche e organizzative, ma non ho qui il tempo di farla).  

Chi è in cerca di scorciatoie dentro e fuori i partiti farà altre scelte, andrà nel Pd, costruirà un soggetto stampella, convocherà assemblee per far nascere l'ennesima corrente o micro-soggetto identitaria, come sempre è stato: non c'è alcun bisogno di offrirgli il terreno di una sfiancante e inutile contesa dentro Leu e dentro Si, che nell'indifferenza generalizzata, consumerebbe solo tempo ed energie preziosi.

Non dobbiamo spaccare in quattro il capello nel tentativo di fare chiarezza, ma mescolare le carte per inventare un nuovo gioco. Con le carte che abbiamo, la partita è chiusa e il neoliberismo per ora ha vinto. Se invece si producono nuovi vettori di senso e di comunicazione, se cresce un pensiero che individua nel modello di sviluppo la fonte di un'ingiustizia sistemica, se alcune proposte diventano patrimonio diffuso, allora si può delineare un'orizzonte e muovere il quadro. 
E possibile. Perché è stato possibile in gran parte d'Europa. Non è immediato, come non lo è stato per l'ascesa di Corbyn, per la crescita di Podemos, per quello che fu il successo di Syryza solo per fare degli esempi. I percorsi di tutte queste forze sono stati preceduti da molti anni di disseminazione sociale e culturale, da molti tentativi falliti, da molti risultati elettorali deludenti. 

Proviamoci. Se funziona cambieranno molte cose, in profondità e nei gruppi dirigenti. E sarà un bene. 

 

TRATT0 DA https://www.commo.org