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Senza reddito né cittadinanza

di PAOLO BOFFO*
27/05/2018 - 12:52

La notizia c’è, ed è che per la prima volta in Italia nel programma di un (nascituro) governo compare una misura di Reddito Minimo.

La misura si configura come uno strumento di sostegno al reddito per i cittadini italiani che versano in condizione di bisogno; l’ammontare dell’erogazione è stabilito in base alla soglia di rischio di povertà calcolata sia per il reddito che per il patrimonio. L’ammontare è fissato in 780,00 Euro mensili per persona singola, parametrato sulla base della scala OCSE per nuclei familiari più numerosi. Al fine di consentire il reinserimento del cittadino nel mondo del lavoro, l’erogazione del reddito di cittadinanza presuppone un impegno attivo del beneficiario che dovrà aderire alle offerte di lavoro provenienti dai centri dell’impiego (massimo tre proposte nell’arco temporale di due anni), con decadenza dal beneficio in caso di rifiuto allo svolgimento dell’attività lavorativa richiesta.”

Viene denominato Reddito di cittadinanza, ma come sappiamo non lo è poiché non è universale né incondizionato, e potrebbe essere attuato semplicemente allargando la platea dell’attuale Reddito di Inclusione (ReI) e incrementandone sostanziosamente il beneficio, essendo entrambe le misure destinate alle persone in povertà o a rischio di povertà.

In Italia infatti dal 1° gennaio 2018 è in vigore il ReI, che sostituisce il SIA (Sostegno per l’inclusione attiva) e l’ASDI (Assegno di disoccupazione). Questa misura, propagandata come il primo strumento introdotto per combattere la povertà, risulta fortemente inadeguata, in primo luogo per l’esiguità delle risorse economiche destinate: 2.059 milioni di euro per il 2018, 2.545 milioni di euro per il 2019, 2.745 milioni di euro annui a decorrere dal 2020.

Si tratta di una prestazione assistenziale rivolta alle famiglie, che ammonta a 187,50 euro mensili per una persona, e può arrivare a 536,82 euro per le famiglie composte da 6 componenti.

Il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali calcola che i nuclei beneficiari potenziali del REI potranno essere oltre 700.000, le persone coperte circa 2,5 milioni, di cui 700.000 minori.

Dunque, una percentuale di appena il 62% delle persone in povertà assoluta potrebbe accedere al beneficio, poiché l’ISTAT stima che nel 2016 in Italia siano 1 milione e 619mila le famiglie residenti in condizione di povertà assoluta, nelle quali vivono 4 milioni e 742mila individui. La povertà relativa nel 2016 riguarda un totale di 2,7 milioni circa, e 8,5 milioni di individui, il 14,0% dei residenti (13,7% l’anno precedente).

Entrambe le misure hanno quasi tutte le caratteristiche che uno schema di reddito minimo non dovrebbe avere. Al ReI, a causa della complessità delle procedure e del suo carattere stigmatizzante, molte famiglie indigenti non potranno mai accedere. Poi c’è la trappola della povertà: molti beneficiari restano bloccati in una situazione di inattività a causa dell’impossibilità o della complessità di combinare il reddito da lavoro con le prestazioni sociali.

La procedura di accesso prevede una valutazione multidimensionale del nucleo familiare svolta dai servizi territoriali in collaborazione con i Centri per l’impiego: abbastanza complessa, soprattutto perché queste strutture sono sottodimensionate, spesso prive di adeguata qualificazione e magari composte da personale precario.

Anche nella proposta del M5S i centri per l’impiego hanno un ruolo importante e per il loro potenziamento si prevede un investimento di 2 miliardi.

In entrambi i casi si prevedono condizionalità comportamentali, come presentarsi periodicamente agli incontri con il Centro per l’impiego, svolgere azioni di ricerca attiva del lavoro, frequentare corsi scolastici, tenere comportamenti di prevenzione delle malattie e cura della salute. Questi impegni e comportamenti si presume servano a impedire il perdurare delle condizioni di esclusione sociale e povertà (anche intergenerazionale) e a contrastare l’opportunismo, con un modello di welfare to work che rischia di trasformarsi nella trappola così ben raccontata da Ken Loach nel film “Io, Daniel Blake”.

La questione di fondo è che i diversi progetti di reddito di «inserimento», di «inclusione», o di «dignità», limitati nel tempo e fortemente condizionati, partono dal presupposto che la riduzione quantitativa del lavoro cui ci troviamo di fronte, la sua precarietà e intermittenza, costituiscano un malfunzionamento del sistema e non invece una condizione ormai strutturale.

La strategia Europa 2020, lanciata nel 2010, prevede(va) che il numero di Europei che vivono al di sotto della soglia di povertà dovrebbe essere ridotto del 25% per fare uscire da questa condizione più di 20 milioni di persone; l’Italia si è proposta di fare uscire dalla povertà 2,2 milioni di persone. Al 2016 i poveri in Europa sono aumentati di 860mila unità, in Italia sono aumentati di 3 milioni di unità.

A livello europeo nel 2016 l’indicatore sintetico di rischio di povertà o esclusione sociale diminuisce da 23,8% a 23,5% ma sale rispetto al 2015 per Romania, Lussemburgo e Italia.

Il valore italiano (30%) si mantiene inferiore a quelli di Bulgaria (40,4%), Romania (38,8%), Grecia (35,6%), Lettonia (30,9%) ma è molto superiore a quelli registrati in Francia (18,2%), Germania (19,7%) e Gran Bretagna (22,2%) e di poco più alto rispetto a quello della Spagna (27,9%).

I Paesi con il livello più basso dell’indicatore sono Repubblica Ceca (13,3%), Finlandia (16,6%), Paesi Bassi e Danimarca (entrambi 16,7%). (Istat, “Condizioni di vita e di reddito”, 6 dicembre 2017).

La protezione contro la povertà è un diritto di ciascuno in Europa (art. 34 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea), è un acquis europeo ed ormai un obbligo giuridico.

L’Unione europea ha avviato di recente importanti iniziative per l’introduzione e il rafforzamento di regimi di reddito minimo: il Pilastro sociale europeo del novembre 2017 prevede all’articolo 14 che “Chiunque non disponga di risorse sufficienti ha diritto a un adeguato reddito minimo che garantisca una vita dignitosa in tutte le fasi della vita e l’accesso a beni e servizi. Per chi può lavorare, il reddito minimo dovrebbe essere combinato con incentivi alla (re)integrazione nel mercato del lavoro”. L’attuazione di questo principio da parte degli Stati membri sarà monitorata nel contesto del Semestre europeo per il coordinamento delle politiche economiche.

 

Il dibattito sul Reddito è in questa fase molto intenso e molti interventi sostengono il Reddito di base, universale e incondizionato. Nel frattempo, mentre nel Paese maturano le condizioni culturali e politiche per arrivarci, sarebbe auspicabile che si faccesse come minimo un Reddito minimo.

L’esistenza di una misura di reddito minimo adeguato, che come sappiamo è presente in tutti i paesi europei tranne che in Italia è necessaria perché:

  • assicura le persone che ne hanno bisogno di rimanere attive nella società e consentono loro di vivere dignitosamente;
  • è indispensabile per società più uguali, e società più uguali sono la cosa migliore per l’intera società;
  • ha un alto ritorno dell’investimento: le risorse economiche impiegate rientrano immediatamente nell’economia, sostenendo la domanda;
  • determina un reddito base di riferimento per l’economia e costituisce un termine di paragone per la fissazione del salario minimo;
  • i Paesi con sistemi di protezione sociale di alta qualità resistono meglio all’impatto della crisi e riescono meglio a ridurre le disuguaglianze che minacciano la coesione sociale;
  • la misura potrebbe favorire una giustizia sociale, rafforzare le libertà individuale dando alle persone un maggiore senso di controllo delle proprie vite e contribuire a fermare l’ondata dei «movimenti populisti neofascisti» che stanno giocando sulle paure e sul senso di insicurezza lavorativa delle persone (come sostiene Guy Standing anche in “A Precariat Charter: From Denizens to Citizens”)
  • una prestazione individuale, e non al nucleo familiare, non viene pagata all’unico «capo» di ogni famiglia, ma a ciascun membro adulto di ogni famiglia. Ciò rafforza sia il potere d’acquisto che quello contrattuale del membro più vulnerabile della famiglia;
  • nel caso (frequente) che il membro più vulnerabile sia una donna la prestazione a livello individuale dà un contributo sostanziale all’autodeterminazione femminile e all’uscita da situazioni a rischio di violenza, dalla necessità di essere mantenute economicamente dipendenti dagli uomini, nel contesto di un modello di matrimonio incentrato sulla figura maschile;
  • può accompagnare politiche di riduzione dell’orario di lavoro per sopportare, a carico della fiscalità generale, il costo iniziale della riduzione;
  • consentirebbe di avere più potere negoziale nel mondo del lavoro precario, dove si potrebbe intraprendere un percorso verso condizioni di lavoro decente, e più sicure, e più dignitose, e anche di alzare il livello generale delle retribuzioni.

TRATTO DA http://www.transform-italia.it