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Cultura
Italia 05/03/2016 - 11:10

Mario Pannunzio (5 Marzo 1910-10 Febbraio 1968) giornalista e politico italiano. 50 anni fa,l'8 Marzo,usciva l'ultimo numero de "Il Mondo",famosa rivista liberale diretta dallo stesso Pannunzio. Si ripropone l'editoriale che il direttore pubblicò in tale occasione.

 

AI LETTORI

– Trascrizione dell’editoriale di Mario Pannunzio sull’ultimo numero del settimanale “Il Mondo” (8 marzo 1966).

Questo che oggi diamo alle stampe è l’ultimo numero de “Il Mondo”. Esso non differisce dal primo apparso diciotto anni orsono: la stessa veste, lo stesso impegno politico e culturale hanno conservato costante il suo indirizzo nel corso di una lunga ed attiva esistenza. Non sta a noi giudicare il segno lasciato dalla nostra presenza nel dibattito che ha accompagnato il risorgere di un ordine democratico nel nostro paese. Un giornale liberale, un giornale laico e antifascista, un giornale indipendente, doveva impegnarsi sui problemi della libertà e del costume civile, e non vi è stata questione di educazione del cittadino, di rinsaldamento dello Stato e delle istituzioni parlamentari, di efficienza di governo di moralità pubblica, di politica interna e internazionale, di economia sociale e di conflitto fra l’interesse privato e quello collettivo, di fronte alla quale il giornale non abbia detto quel che gli è sembrato di dover dire, anche se le sue parole sono apparse spesso verità scomode e qualche volta dure.
Forse i lettori avranno già trovato nei nostri ultimi commenti il preannuncio di quella che è oggi una decisione. In un paese di recente ricostruzione democratica, la spinta ideale delle forze politiche si trova davanti potenti concentrazioni di interessi e di bisogni, abitudini mentali e tradizioni culturali in continuo allarme verso tutto quello che appare nuovo e problematico. Le opinioni di partiti, dei gruppi, degli uomini disinteressati sembrano una specie di inutile giuoco di gente irrequieta. Contano i problemi del benessere, della uniformità sociale e del consenso perpetuo. Non accade soltanto in Italia, e lo si sa bene; ma in Italia il disinteresse per la cosa pubblica e per i dibattiti morali e culturali trova sempre un terreno di rifugio e di fuga. Il nostro paese legge meno degli altri paesi e i mezzi di informazione sono più che altrove dominati dal conformismo e dall’ossequio. Domina soprattutto, in Italia, la presenza di un potere radicato e penetrante, di un governo segreto, morbido e sacerdotale, che conquista amici ed avversari e tende a snervare ogni iniziativa e ogni resistenza.
Abbiamo sempre sostenuto il dovere delle minoranze, dei partiti, dei gruppi e degli individui di rompere questo clima, di opporsi, di criticare, di protestare, di lavorare insieme. Perfino un partito politico, il partito radicale fu fondato su questo impegno. Per anni abbiamo sollecitato socialisti e repubblicani, liberali autentici e indipendenti, a costruire alleanze democratiche, fronti laici, terze forze; abbiamo denunziato, nel nostro giornale e nei nostri convegni, l’invadenza clericale, il sottogoverno delle maggioranze, i connubi tra mondo politico e mondo economico. Abbiamo deplorato con ostinazione la chiusura irrimediabile del mondo comunista alle sollecitazioni della libertà.
Nei momenti migliori una fortunata convergenza di minoranze ha sollevato il paese dalla sua vita stagnante: la destra è stata sconfitta, il degenere partito liberale è ormai una moneta fuori corso, i fenomeni più balcanici del clerico-fascismo sono stati in gran parte cancellati. Caduto il centrismo, nuove forze sociali, sciolte dalla soggezione comunista, sono oggi nel governo. Eppure il mondo più vivo della cultura, delle professioni e dell’economia è di nuovo alle strette.
Tante volte in questi lunghi anni, quando le cose sembravano più buie e aggrovigliate, ci siamo domandati: come mai correnti di ispirazione liberale e democratica, fedeli a una tradizione di pensiero di grande nobiltà, che trae le sue origini dal sorgere dell’Italia moderna e che ha avuto maestri come Cavour, Mazzini, Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, hanno trovato e trovano così poca udienza nel nostro paese e insieme una così unanime, agguerrita ostilità da renderle simili a pattuglie isolate di frontiera, quasi separate dal tessuto vitale della nazione? La pressione di enormi masse che votano per i cattolici, per i comunisti e perfino per i monarchici e i fascisti impone con la forza del numero ideali e concezioni politiche, culturali e morali, lontane, bisogna pur dirlo, dal mondo moderno. Parlano le cifre. Su un elettorato di trenta milioni di individui, ventidue milioni di voti vanno a partiti diciamo così indigeni che, ad esempio, in Inghilterra, in America, in Scandinavia, in pratica neppure esistono. E’ uno strano spettacolo. In questi giorni tutta l’Italia, unanime, rende omaggio a Benedetto Croce, ma ha sempre votato spensieratamente per tutti gli avversari di Croce. La cultura politica che negli anni della Resistenza aveva dato grandi esempi di intransigenza morale e di vigore intellettuale sembra in gran parte prostrata davanti ai nuovi potenti e ai nuovi sortilegi, e cerca conforto nei surrogati della sociologia e nel dialogo esistenziale tra mistici e materialisti. Un linguaggio disossato, enigmatico, conciliante, invade giornali, convegni, riviste e comizi.
Questo clima, questo linguaggio non sono mai stati nostri. Non ci piacciono le mezze verità; non ci piacciono la deferenza e l’unzione per le idee che detestiamo. Ci siamo sempre battuti per dare il loro nome ai fatti e ai personaggi. Problemi ideali e problemi concreti non stanno su piani diversi. Gli intellettuali, per noi, non si trovano soltanto fra i poeti e i novellieri. Né tanto meno fanno parte di una corporazione privilegiata, separata dalle altre. L’intellettuale per noi è una figura intera. L’uomo politico, se non vuole essere un puro faccendiere, è anch’esso un intellettuale che vive pubblicamente e che fa con naturalezza la sua parte nella società. Sempre in questi anni abbiamo cercato di riunire insieme uomini impegnati nella soluzione di cose vive e necessarie. Se oggi consideriamo conclusa la nostra giornata non è per rassegnazione e nemmeno perché sentiamo che il nostro compito si è esaurito. Vorremmo dire, al contrario, che mai come ora abbiamo sentito urgente il bisogno della partecipazione attiva alla vita pubblica e alla civiltà morale del paese, di uomini appassionati, indipendenti, intransigenti e risoluti. C’è però un momento nel quale sia gli individui sia i gruppi devono fare l’esame delle proprie forze e misurarle con l’esperienza del passato e le prospettive dell’avvenire. La consapevolezza della dura realtà che ci avvolge non è un segno di debolezza. Ma lo sforzo di un giornale come il nostro per sopravvivere dovrebbe trovare un fondamento e una dimensione che il senso geloso della nostra indipendenza non consente di darci. Le regole moderne dell’organizzazione, lo sviluppo di concentrazioni economiche, politiche e sindacali sempre più vaste, il prevalere massiccio dell’industria culturale rendono ogni giorno più difficile l’attività dei gruppi autonomi e delle iniziative disinteressate. E’ una verità che trova di continuo nuove conferme.
Ci resta da affrontare, non senza rammarico, il congedo dai nostri lettori, il distacco dall’amicizia di un’opinione fedele. A chi ci è stato vicino, ai nostri collaboratori, ai nostri lettori, che hanno trovato su questo giornale lo specchio delle loro convinzioni e delle loro speranze, dobbiamo dare un saluto, e lo diamo con animo grato, con la coscienza di aver sempre ricambiato la loro fedeltà e con la fiducia che il cerchio di amici legati a questo giornale non si disperderà e manterrà viva la sua presenza in una società che ha pure bisogno della dissidenza.

 

 

Da www.progettaronciglione.it

L'autore

Ritratto di Guido Decenti Guido Decenti