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A Berlino il centro per la sorveglianza di massa

Internet
Internazionale 12/02/2015 - 21:39

Il parere degli esperti è unanime: “Lo spionaggio di intere popolazioni non è solo una minaccia per la democrazia e la privacy, ma non funziona”

di Stefania Maurizi, l’Espresso - Parlare con loro. Incontrarli a quattro occhi per sapere dettagli precisi del loro lavoro, non è facile. Da quando è scoppiato lo scandalo Nsa, Berlino è il centro di gravità di tutti i talenti del computer. Hacker, giornalisti, attivisti, artisti che hanno un nemico in comune: la sorveglianza di massa. Può sembrare un paradosso, ma una città rimasta nella memoria storica e collettiva per il suo stato di polizia e per i suoi apparati di repressione e controllo estremi, dalla Gestapo alla Stasi, oggi è il punto di riferimento per quella società civile che non vuole riportare il pendolo indietro alla sorveglianza totale in nome della sicurezza.

Personaggi di grande spessore hanno piantato le tende nel cuore di Berlino, come Sarah Harrison, la giornalista di WikiLeaks che ha materialmente prelevato Edward Snowden da Hong Kong alla ricerca di asilo a Mosca ; Laura Poitras, la giornalista contattata da Snowden e a cui l’ex contractor ha consegnato l’intero database di file top secret; Jake Appelbaum, grande esperto di comunicazioni sicure che con Poitras ha lavorato fin dalla prima ora ai file di Snowden. Non tutti hanno “scelto” di stare qui: Harrison, ad esempio, è cittadina britannica e si è ritrovata a Berlino al rientro da Mosca, nell’ottobre 2013, quando, su consiglio dei legali di WikiLeaks, ha deciso di non rientrare in Inghilterra per timore di fare la fine di David Miranda, il partner di Glenn Greenwald arrestato all’aeroporto di Heathrow a Londra con l’accusa di terrorismo. Ma cosa rende speciale Berlino? E perché, vista la stretta collaborazione dei servizi segreti tedeschi del Bnd con la Nsa, rivelata dai file di Snowden, una comunità come questa è di fatto “tollerata”?

Il cielo sopra Berlino

Andy Müller-Maguhn © Raimond Spekking / CC BY-SA 4.0

«La storia tedesca» – racconta a “l’Espresso” Andy Mueller-Maguhn, esperto di comunicazioni sicure ed ex portavoce del Chaos Computer Club, più rispettato club hacker d’Europa – «insegna molto su cosa accade quando i governi cercano risposte facili a scenari complessi e rispondono con la sorveglianza, la censura e la soppressione delle idee e di intere comunità di persone. E quindi proprio per questo background storico, qui l’approccio della Nsa e di molti altri governi è semplicemente inaccettabile, perché il concetto stesso di sorveglianza mina direttamente uno dei principi cardine di una società democratica, ovvero la possibilità di parlare apertamente e dire cosa si pensa, obiettare, senza aver paura di farlo».

Mueller-Maguhn racconta come nei suoi trenta anni di lavoro per il Chaos Computer Club lui e gli altri hacker hanno lavorato incessantemente per creare una coscienza sociale su come la tecnologia viene usata per la sorveglianza. E questo lavoro continuo, fatto di talento, passione, condivisione, ha indubbiamente prodotto risultati durevoli e significativi. Oggi il Chaos Computer Club (CCC) è un punto di riferimento in tutto il mondo e, a differenza di iniziative americane analoghe, non offre un palcoscenico a spie e forze dell’ordine che cercano di arruolare i talenti del computer. E, anzi, le figure accolte e rispettate da questa comunità sono proprio personaggi estremamente critici della via imboccata dalle agenzie di intelligence dopo l’11 settembre. Come Bill Binney, Thomas Drake e Annie Machon.

The Dark Side
Annie Machon ha visto di persona gli esiti disatrosi delle operazioni dell’intelligence inglese contro Gheddafi prima che scoppiasse la Primavera araba, lavorando per i servizi inglesi dell’MI5. I suoi guai sono cominciati quando ne ha pubblicamente denunciato incompetenze e scelte catastrofiche. Oggi Machon è una delle ex spie che supporta il premio “Sam Adams Award”, un riconoscimento assegnato a personaggi che hanno dimostrato il coraggio di denunciare pubblicamente crimini e abusi delle agenzie di intelligence e degli apparati dello Stato. Per ricevere il Sam Adams non bisogna essere necessariamente membri della comunità dell’intelligence e di fatto negli anni scorsi il premio è andato, per esempio, a Julian Assange. «Il Sam Adams è attribuito da una comunità di una ventina di persone, che hanno fatto parte della comunità di intelligence o dell’esercito, e che condividono la forte visione che la comunità d’intelligence negli ultimi 20 anni, e in particolare dopo l’11 settembre, ha imboccato una strada oscura, una dark side», spiega Annie Machon a l’Espresso.

Quest’anno i giurati del Sam Adams si sono riuniti proprio a Berlino per assegnare il premio aBill Binney, uno dei più grandi matematici e crittografi che la Nsa abbia mai avuto, un tecnico che conosce come nessuno l’apparato messo in piedi dalla Nsa. Per 36 anni Binney ha lavorato per la Nsa, per poi sbattere la porta subito dopo l’11 settembre. Critico della prima ora della sorveglianza di massa, oggi, dopo lo scandalo innescato da Snowden, Bill Binney non ha assolutamente cambiato idea. Al di là del problema etico-sociale, la sorveglianza indiscriminata non funziona, denuncia ancora il grande esperto. «Ci sono troppi dati e troppe persone sotto sorveglianza per i 10-20mila analisti [della Nsa, ndr] che li possono analizzare», spiega a l’Espresso Binney. «Questo viene fuori quando fanno ricerche nei database, un po’ come in Google, e si ritrovano come risposta i dati di qualcosa come quattro miliardi di persone. E’ esattamente lo stesso problema che la Nsa aveva prima dell’11 settembre. Avevano dati che avrebbero potuto prevenire l’11 settembre, ma manco sapevano di averli nei loro database. E questo accadeva quando ancora non si faceva sorveglianza di massa. Ora [con l’esplodere dei dati per la sorveglianza di massa, ndr] il problema è molto molto peggiore», spiega Binney.

L’analisi di Binney è completamente condivisa da quella del collega Thomas Drake, ex senior executive alla Nsa e anche lui critico della prima ora della sorveglianza di massa. «I buoni modelli di sorveglianza mirata», racconta Drake a l’Espresso, «furono sviluppati negli anni ’90, quando internet decollò per accogliere la sfida di trovare informazione genuina in un mare di dati. Non si deve prosciugare l’oceano per scovare il pesce cattivo, si deve solo scoprire dove si trova il pesce cattivo. E’ così semplice. E un programma della Nsa chiamato “Thinthread” faceva proprio questo», spiega Drake, ricordando come fu boicottato dall’Agenzia che si buttò sulla sorveglianza indiscriminata, anziché su quella mirata.

Binney, Drake, Machon concordano completamente sul fatto che lo spionaggio di intere popolazioni non solo è una minaccia esistenziale per la democrazia, ma non funziona. E il punto è proprio questo: non funziona. «Se guardiamo agli attacchi che ci sono stati in Europa, la maggior parte di essi sono stati eseguiti da individui già noti alle agenzie di intelligence», spiega Annie Machon. «Queste persone erano state e continuavano ad essere sotto sorveglianza, ma a causa di questa enorme massiccia sorveglianza di massa, i servizi segreti non mantengono la loro attenzione sulle persone che costituiscono il vero problema. Bisogna andare indietro alle tecniche classiche di intelligence, con gli agenti, bisogna avere tutta una serie di tecniche per indagare sulle minacce terroristiche e bisogna fare tutto questo in modo legale e con responsabilità tipiche della democrazia».

Diffuso, decentrato, variegato, talentuoso
Quello che fa di Berlino un modello è l’incrocio di professionalità e competenze, opportunità e desiderio di condividere. Renata Avila, avvocato, supporter della prima ora di WikiLeaks e membro del board of directors del “Creative commons” – associazione che propone un modello alternativo al copyright – racconta a l’Espresso perché ha scelto Berlino: «Anche se il quadro legale è decisamente non ideale, perché la protezione assicurata ai whistleblower è veramente carente e ci sono regole assurdamente rigide per il copyright, ho scelto questo posto per la sua fiorente comunità di talenti, per la diversità culturale che offre e per il forte sentimento che caratterizza la società civile berlinese, che supporta atti di coraggio come quelli dei whistleblower».

Avila racconta che c’è un’incredibile atmosfera, dove anche persone come Sarah Harrison di WikiLeaks o Jake Appelbaum, che hanno problemi a tornare a casa in Inghilterra e in America per il loro lavoro sul caso Snowden, ricevono supporto morale e personale. «Tutta la gente brillante che vuole riforme, un web più aperto e protetto dalla sorveglianza si stanno radunando qui».

Jillian York, dell’Electronic Frontier Foundation di San Francisco, un baluardo mondiale per la difesa dei diritti digitali, è qui. «Ho scelto espressamente Berlino perché sapevo che sarebbe stato un ottimo posto in termini di lavoro collaborativo e di comunità», dice Jillian York a l’Espresso, spiegando che attualmente sta lavorando, tra le altre cose, a una piattaforma in cui gli utenti possono condividere le loro esperienze sulla censura operata da grandi corporation come Facebook o Twitter su pressione di governi e aziende. «Credo che una delle cose importanti da dire sul perché Berlino è diventato un hub», spiega, «è dire che qui ci sono organizzazioni incredibili, come il CCC, Netzpolitik e Digitale Gesellschaft che rendono il nostro lavoro possibile», racconta Jillian York.

Anche Maria Xynou, che ha fatto ricerca sulla sorveglianza in India, si è spostata a Berlino. «Lavoro per Tactical Technology Collective», ci dice Xinou, spiegando che, poiché la sorveglianza è un problema globale, spera di studiarla e indagarla spostandosi in vari paesi e continenti. «Vivere a Berlino ha molti vantaggi, tra cui il fatto che è molto più facile interagire e lavorare con gente che si occupa di questi temi». Altro talento della scena di Berlino è “thiamin” che ci chiede di scrivere il suo nick proprio così con la minuscola e, assolutamente, niente nome e nessun dettaglio che lo identifichi. Lavora a questioni delicate. «Mi sono spostato qui per tutta una serie di ragioni, ma una delle principali è che c’è una comunità notevole, cosciente del problema della privacy. Ci sono attivisti, artisti, giornalisti, sviluppatori di software libero», spiega a l’Espresso.

Gli italiani
E nella comunità di talenti non potevano mancare gli italiani. L’esperto di sicurezza Claudio Guarnieri racconta di aver lasciato l’Italia già diversi anni fa. «L’Italia, negli ultimi cinque anni, ha avuto poco o nulla da offrire, e i pochi individui impegnati e riconosciuti a livello internazionale in Italia hanno poco spazio. Berlino, al contrario, è un hub molto ricco, con una scena hacking coltivata dal CCC che non ha eguali in Europa e nel mondo».

Claudio Agosti che con il centro Hermes di Milano ha sviluppato la piattaforma di whistleblowing “GlobaLeaks” racconta a l’Espresso di essere venuto a Berlino, tra le altre cose, per un progetto preciso: Trackography, un osservatorio globale che ha come missione quella di individuare per ogni media, quali sono le società pubblicitarie in grado di profilarci quando accediamo a quel media, di studiare i nostri interessi, comportamenti e ogni nostro “movimento sul web”. «Per riuscire a “scalare” Trackography a livello mondiale, avevo bisogno di un gruppo di lavoro con una rete globale», spiega Agosti.

La Germania è anche una delle pochissime nazioni del mondo ad aver messo in piedi una grande inchiesta parlamentare sullo spionaggio di massa della Nsa sul suolo tedesco. Dall’inchiesta e dai file di Snowden emerge la stretta collaborazione tra i servizi segreti tedeschi del Bnd e la National Security Agency. Ma allora perché questa grande comunità internazionale di talenti anti-sorveglianza è così tollerata a Berlino? L’esperto di comunicazioni sicure Andy Mueller-Maguhn non ha parole tenere per l’intelligence tedesca e per come è stata ricostruita “machiavellicamente” dagli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale, «con il diretto coinvolgimento di figure chiave dell’intelligence ai tempi del nazismo».

Ma a Berlino c’è anche un grande «gap tra lo sviluppo dell’intelligence da una parte e il Parlamento dall’altra», spiega Mueller-Maguhn, raccontando dell’inchiesta parlamentare in corso: «E’ veramente interessante e, a volte, puro intrattenimento vedere come i membri del Parlamento scoprono queste cose [le attività della Nsa e la cooperazione con i servizi tedeschi, ndr], nonostante le bugie che ogni tanto vengono dette. E qui abbiamo un filo di speranza che la politica riprenda il controllo degli apparati dell’intelligence, o altrimenti sarà il contrario». Proprio quel filo di speranza che sembra mancare in Italia e in tutto il resto d’Europa.